lunedì 4 maggio 2015

Grisha Bruskin




La 56° Biennale di Venezia – secondo le dichiarazioni del direttore Enwezor – torna a confrontarsi decisamente con le macerie della storia degli ultimi secoli, con il cambiamento incessante delle ideologie; a misurare, attraverso i linguaggi dell’arte che lo rappresentano, la profonda inquietudine di un tempo che accumula e distrugge. “La collezione di un archeologo”, il progetto dell’artista russo Grisha Bruskin ospitato nell’ex-chiesa di Santa Caterina, tra i più rilevanti Eventi Collaterali di quest’anno, non fosse altro per il prestigio internazionale che accompagna Bruskin ormai da parecchi lustri, si inscrive in modo molto pertinente in questo scenario.

Le origini di questa complessa installazione vanno rintracciate nel vasto dipinto che ha imposto Bruskin all’attenzione di pubblico e critica anche al di fuori del suo Paese: si tratta di “Lessico fondamentale” (“Fundamental’nyj leksikon”, 1986), l’archiviazione visiva di oltre 250 normotipi dell’umanità sovietica. Quello che allora poteva apparire come l’affresco di un’antropologia immutabile si è rivelato, appena pochi anni dopo, l’analitica testimonianza di un impero improvvisamente scomparso, di un sistema collassato e imploso.
Da questa sua sconfinata rubrica di “personaggi” Bruskin dopo il crollo dell’URSS (1991) ha ricavato una serie di statue, quasi a grandezza naturale. Le ha poi frantumate, ha fuso in bronzo i frammenti che ha ritenuto più rilevanti, li ha interrati nella campagna toscana, accanto a una necropoli etrusca, e dopo tre anni ha organizzato una vera e propria campagna di scavo archeologico (con apposite rilevazioni sull’ossidazione dei reperti) per riportarli alla luce. È quanto osserveremo nella mostra veneziana. Un sito archeologico perfettamente ordinato, in cui rintracciare l’ordine apparente del potere e il concreto disordine della storia.



L’artista non ha mancato di chiarire le ragioni di questa sua lunga ricerca: ha voluto che i resti dell’impero sovietico venissero riesumati dalle terre di quello romano, nel nome di una antica tradizione, che sin dall’epoca zarista (czar non è altro che la contrazione di caesar), rivendica a Mosca il titolo di Terza Roma, dopo la caduta di Costantinopoli e il rischio di una corruzione dell’ortodossia religiosa. E anche i dirigenti sovietici, in seguito, hanno continuato a pensare all’URSS come a un impero, multietnico e multiconfessionale, retto da un inflessibile cesarismo…



È quasi inutile aggiungere la lancinante attualità del progetto di Bruskin, in una fase storica che sovrappone il potere religioso a quello politico e militare, che ambisce a costituire dal nulla nuovi improbabili imperi. L’artista russo ci costringe viceversa a guardare in faccia questo nulla, a riflettere su come una rivoluzione possa rapidamente divenire ancien régime, implodere, salvo poi sopravvivere nella nostalgia e nel mito. Lo sguardo asciutto di Bruskin non fa alcuna concessione alla nostalgia: la sua è, da una parte, la serissima parodia del potere e del consenso che ogni potere insegue, e insieme un’indagine – che riguarda non solo la storia russa ma ogni nostro comune passato – sui meccanismi profondi della memoria, un tema che lo affascina da sempre, come attesta l’altra sua mostra attualmente in scena a Venezia: “Alefbet. Alfabeto della memoria”.
“La collezione di un archeologo” è un progetto intriso di alcuni filoni essenziali della riflessione sulla storia del Novecento, da Benjamin a Borges, da Foucault a Lotman. Ma è anche un’installazione di grande e calcolato coinvolgimento emotivo: come l’”Angelus Novus” di Klee, ci è offerta la possibilità di guardare dall’alto le scorie rovinose di un passato doloroso, confrontando la verità della passione con la menzogna delle parole d’ordine. Davvero la storia è magistra vitae? Da “La collezione di un archeologo” si esce con alcune risposte e con molte nuove domande.



La mostra è accompagnata da un catalogo in inglese (Terra Ferma). Tra gli autori, oltre ai due curatori, Ekaterina Bobrinskaja, Grisha Bruskin, Sauro Gelichi, Boris Groys, Mikhail Iampolski, Marcello Miccio.

Grisha Bruskin (1945) è uno dei più importanti artisti russi contemporanei. Le sue opere si trovano in numerosi musei e collezioni private, non solo russi. Nel 1999 ha realizzato su invito del governo tedesco il trittico monumentale “La vita prima di tutto” per la ricostruzione del Reichstag a Berlino. Nel 2012 ha ricevuto il Premio Kandinskij nella categoria “Progetto dell’anno”.

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